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Archive for Maggio 2007

Riproduciamo, qui di seguito, la traccia dell’intervento di Sandro Mezzadra al seminario “metamorfosi del soggetto/metamorfosi del fantasma” tenutosi a Palazzo Nuovo, lo scorso 4 maggio.

1. Il tema a cui è dedicato il seminario di oggi è tra quelli meno indagati all’interno della renaissance che l’operaismo italiano ha vissuto negli ultimi anni. Per quanto la questione della critica della rappresentanza abbia rappresentato un leitmotiv della nostra discussione, la critica del diritto e dello Stato, nella specifica variante che è stata sviluppata dall’operaismo italiano nella temperie degli anni Settanta, è stata raramente riattraversata in modo sistematico. Vale la pena di farlo, per rilanciare in avanti il dibattito, a partire da una rilettura di un concetto specifico presentato da Negri e Hardt in Impero: quello di «costituzione mista».

2. Checché se ne dica, sotto questo profilo l’analisi proposta da Negri e Hardt ha trovato più conferme che smentite negli anni successivi alla pubblicazione di Impero. S. Sassen: nowadays, while a global law is emerging as «centered on a multiplicity of global but partial regimes that address the needs of specialized sectors», sovereignty «remains a systemic property but its institutional insertion and its capacity to legitimate and absorb all legitimating power, to be the source of the law, have become unstable». Occorre del resto aggiungere che l’osservazione appena fatta sull’attualità del concetto di «costituzione mista» vale nella misura in cui, tuttavia, si liberi quel concetto di ogni tentazione modellistica e del “progressismo” che ne caratterizza la stessa interpretazione sul terreno della tendenza (è un punto su cui decisivo è stato, quantomeno per me, il contributo della critica postcoloniale).

3. Wang-Hui sulla Cina: occorre liberarsi di ogni immagine, che non può oggi che risultare ideologica, dell’unità dello Stato. Ma chiediamoci: si può ancora parlare di Stato quando occorre prendere congedo dalla sua figura unitaria? L’America latina costringe essa stessa a porre questa domanda: Asia e America latina (e si dovrebbe aggiungere anche l’Africa, dove il “governo” si sta riorganizzando attorno a enclaves, minerarie o umanitarie, in cui soggetti diversi dallo “Stato” giocano un ruolo essenziale – James Ferguson) ci mostrano, dal punto di vista dello “Stato dello sviluppo” (developmental, desarrollista) quanto abbiamo sottolineato a partire dagli inizi degli anni Settanta nell’analisi critica dello Stato di welfare in riferimento all’Europa e agli USA. È questo punto specifico che consegna alla storia, nonostante tutto quello che io personalmente ne ho tratto in termini di comprensione della storia dello Stato moderno, analisi come quelle di Tronti sull’autonomia del politico.

4. Articolazione e mediazione di una molteplicità di livelli: Ong (zoning technologies, neoliberalism as exception), Sassen (concetto di «denazionalizzazione» – La globalizzazione non è dunque qualcosa che si è imposto dall’esterno alla volontà degli Stati – e che si potrebbe arrestare facendo perno sulla loro sovranità –, ed essi continuano piuttosto a essere attori fondamentali al suo interno. Ma articolano la propria azione con altri “livelli” di potere, e configurano un «assemblaggio» di territorio, autorità e diritti completamente diverso da quello “nazionale”), Ferrarese (diritto sopranazionale, diritto transnazionale, lex mercatoria, governance). La rilevanza strategica dei confini (Rigo).

5. Il dibattito marxista sullo Stato negli anni Sessanta e Settanta (Stamokap – «il capitalismo monopolistico di Stato consiste nella subordinazione dell’apparato statale ai monopoli capitalistici», Stalin – e capitalismo organizzato – Introdotto nel 1915 nel dibattito della socialdemocrazia tedesca da R. Hilferding, quest’ultimo concetto intendeva sottolineare quella tendenza del capitalismo a «mitigare l’anarchia della produzione» che sembrava emergere dagli sviluppi economici successivi agli anni ’90 del XIX secolo. L’avvio di processi di concentrazione monopolistica – con la formazione di cartelli e trust –, il peso crescente delle grandi banche nell’assetto proprietario dell’industria, la diffusione delle società per azioni, il nuovo ruolo economico e sociale assunto dallo Stato, l’“imperialismo” – il capitalismo monopolitstico nell’analisi di Lenin). Posizioni significative: richiamare almeno Offe (amministrazione), Poulantzas, Agnoli, Hirsch, O’ Connor. Il concetto di capitale complessivo. G. Gozzi: «lo Stato si manifesta, infatti, come capitalista collettivo ideale, scriveva già Engels. “Ideale”, non reale, perché di fatto deve assumere anche logiche non capitalistiche. L’allestimento di condizioni generali necessarie per la riproduzione del capitale complessivo da parte dello Stato – ad es. la tutela della forza lavoro contro il suo deperimento fisico e psichico – può essere infatti ottenuto solo contro gli interessi di molti capitali individuali, così come la pressione di molti interessi può avere effetti negativi per il processo di riproduzione complessivo…» (Le trasformazioni dello Stato. Tendenze del dibattito in Germania e in USA, La nuova Italia, 1980, p. 20) –N. Poulantzas: un processo contraddittorio, di selettività strutturale e di filtraggio graduato dei diversi interessi presenti all’interno di quel blocco, che si cristallizzano nelle diverse branche, nei diversi apparati e nelle diverse istituzioni dello Stato stesso.

6. Alla ricerca di un metodo. La critica del diritto altro non è, in fondo, che il tentativo di ritrovare all’interno delle forme giuridiche l’intensità dell’antagonismo, il profilo di soggetti dominati e sfruttati che la pur reale potenza dell’astrazione giuridica fatica a contenere e disciplinare. Che cosa c’è di più reale delle forme, domandava Hans Kelsen? Si tratta di accettare questa provocazione, di muoversi all’interno del terreno da essa delineato e, infine, di volgerla contro l’idea stessa dell’assoluta autonomia della scienza giuridica, di lacerarne le raffinate trame concettuali. La specificità dell’operaismo nel lavoro di Negri: il lavoro e la costituzione -«la costituzionalizzazione del lavoro non è solo oggettivamente data dalla socializzazione della forza-lavoro, ma è da questa soggettivamente imposta. Al massimo di intensità formale dell’unificazione dello sviluppo nel modello non può non seguire un massimo di unificazione attorno al valore-lavoro» (La forma Stato, p. 79); «se, in ultima istanza, non può darsi negazione all’interno del modello, pure questa negazione è verificabile a ogni passo. Ed è per risolverla che il modello assume il carattere della processualità» (ivi, p. 92). Il problema della necessaria rappresentazione unitaria del lavoro. Lo Stato come sintesi di organizzazione e comando (Lo Stato dei partiti) –«solo il massimo di organizzazione permette il massimo di subordinazione, solo il diritto esalta come sua effettiva opposizione dialettica il dominio generale dell’uomo sull’uomo» (Rileggendo Pasukanis, p. 184).

7. Citazione del Dizionario Feltrinelli – Fischer: la voce “Stato” manca «perché “Stato” viene qui considerato una realtà che l’uomo nuovo, prodotto dello sviluppo capitalistico, quest’uomo che sa natura e storia non come un nesso oscuro ma come sua propria realtà, costruita e sofferta nel lavoro e nello sfruttamento che l’organizzazione del lavoro determina, sente come un’impostura da distruggere, distruggendo tutte le forme attraverso le quali lo Stato si fa realtà di dominio» (p. 10). La questione del costituzionalismo: esso nasce, nella sua forma moderna, quando la borghesia, ponendosi «il problema della direzione politica della società secondo le sue finalità economiche e culturali, si scontra con l’antico regime e con le forze che lo costituiscono» (FF, p. 82). «La costituzione si presenta come forza politica essa stessa: come possibilità di promozione, di repressione e di innovazione, a partire dallo schema di rapporti sociali che in essa sono fissati» (FF, pp. 83 s.). Rottura nella storia del capitalismo quando la presenza massificata della classe operaia impone la sua trasformazione da forma dell’equilibrio politico in «forma di integrazione delle forze proletarie emerse alla vita politica» (FF, 84). «Il comunismo è il contrario del costituzionalismo – e di ogni figura nella quale il costituzionalismo si traveste» (La norma rivoluzionaria, p. 132).

8. Lo Stato moderno e la borghesia: Descartes politico. «Se la ricostruzione dello Stato, nella forma dell’assolutismo monarchico, registra il temporaneo fallimento della borghesia come classe politica e sanziona la dissociazione della classe sociale dalla gestione diretta dello stato, perché lo stato macchina? Perché l’assolutismo assume la forma del modo sociale di produzione? Si è detto: la borghesia è comunque uscita dalla crisi rinascimentale come classe socialmente egemone. Ma qui va sottolineata l’importanza dell’affermazione: senza avere la possibilità di conquistare politicamente lo stato, la borghesia, con la sua semplice, massiccia e decisiva presenza sociale, lo configura a sua immagine e somiglianza. Lo stato è una macchina per mantenere l’ordine: sociale, economico e religioso. Ma società ed economia e religione sono dominate ormai dal sentire e dall’azione borghese. Se tutto è poi a sua volta ordinato dallo stato, è in nome di un complesso rapporto di contenuto e forma: forma statuale di un contenuto sociale borghese. Ordine, forma negativa: ognuno al suo posto. Positivamente invece: riassetto monetario, sostegno all’industria, intervento pacificatore in materia religiosa. Lo stato macchina dell’assolutismo borghese è mercantilista e gallicano: è paradossalmente, nei contenuti dell’esercizio del suo potere, stato borghese» (A. Negri, Problemi di storia dello stato moderno. Francia: 1610-1650, in «Rivista critica di storia della filosofia», XXII [1967], 2, pp. pp. 207 s.). Il problema dell’ideologia, oltre lo schema struttura – sovrastruttura; Borkenau vs. Grossmann; religione e lotte di classe tra Cinque e Seicento; rivoluzione capitalistica vs. rivoluzione borghese.

9. La rottura keynesiana. L’Ottobre rosso introduce nella materialità stessa della classe operaia la qualificazione politica, imponendo una completa ristrutturazione del meccanismo sociale di estrazione del plusvalore, «in una situazione in cui al riconoscimento dell’autonomia operaia si accompagnasse la capacità di un suo controllo politico» (Operai e Stato, p. 71) –e della riproduzione complessiva della forza lavoro: uno sconvolgimento dello stesso fondamento materiale della vita costituzionale. Un effetto «riformistico» della lotta operaia sulla struttura del capitale? Alle origini dello Stato-piano e dei suoi squilibri.

10. La disarticolazione della forma-Stato: «la crisi, a questo livello di sviluppo, si presenta ormai sempre come crisi politica…» (La forma Stato, p. 216). «… In realtà non è solo la superficie amministrativa che è completamente in crisi: sono soprattutto i criteri e le figure di legittimazione dell’amministrazione a esserlo…» (ivi, p. 325). Dallo Stato piano allo Stato crisi. Back to the present: Fabbriche del soggetto. Mercato del lavoro e sua crisi (un problema anticipato dagli studi di Luciano Ferrari Bravo e Sandro Serafini).

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Sergio Bologna ci ha mandato, in vista della sua presenza al Seminario “Metamorfosi del Soggetto/Metamorfosi del Fantasma”, il suo ultimo provocatorio articolo, scritto in l’occasione della MayDay 2007 di Milano.

Il movimento contro i rapporti di lavoro precari, contro l’insicurezza, per avere diritti uguali per tutti i cittadini, sembra riesca soltanto a manifestare disagio, a mobilitare protesta, ma non a cambiare lo stato delle cose. Troppi sono gli ostacoli che impediscono di fare passi avanti. L’attuale Governo e la politica del suo Ministero del Lavoro è uno di questi, ma non meno insidiosi sembrano gli ostacoli interni al movimento stesso.
Il pericolo che un’intera generazione sia condannata ad un’esistenza da cittadini di serie B è reale. Nei media e nei discorsi ufficiali si diffondono inviti alla rassegnazione dicendo che questa condizione è generalizzata a tutto l’Occidente capitalistico. In realtà se questo è vero – ed è purtroppo vero – costituisce una ragione di più per essere preoccupati e cercar di reagire.

Avere coscienza di sé come classe

E’ opinione abbastanza condivisa che il fordismo ha prodotto l’operaio massa.
In base a questa percezione si sono costruiti i ragionamenti politici che hanno dato un contenuto ai movimenti sociali degli Anni 60 e 70. Non è altrettanto chiaro, o comunque altrettanto condiviso, il ragionamento sulla classe prodotta dal postfordismo. Molti tentativi di definire i contorni di questa classe sono stati fatti e sono in corso, non ultimo quello di definirla come “non classe”. Ma finché non si riesce a trovarne un profilo adeguato, che abbia la stessa chiarezza, schematicità, evidenza e capacità di comunicazione che ha avuto il termine di “operaio massa”, ogni sforzo per farne un soggetto politico con cui Governo e capitale debbono confrontarsi sarà inutile.

Ricomporre un sistema di pensiero

Quello che viene definito “operaismo italiano” è stato forse l’unico sistema di pensiero che ha cercato di mettere ordine nella percezione dei rapporti di classe del dopoguerra. Ripercorriamo per un momento la strada che ha battuto per arrivare a definire il soggetto di classe del fordismo, l’operaio massa. Il punto di partenza è stato lo sforzo di comprensione dei cambiamenti tecnologici e organizzativi del capitalismo. Come le macchine ed il loro uso trasformavano, plasmavano gli uomini che ricevevano un salario per azionarle e controllarle. Primo passo, capire le macchine e la loro capacità di mutamento genetico dei comportamenti umani. Secondo passo, capire il governo politico di questo processo, trovare coerenza tra azioni di governo, amministrazione pubblica e trasformazioni tecnologico-organizzative del lavoro salariato. Terzo passo: riconosciuti i lucchetti che ti serrano le mani, imparare a farli saltare uno a uno. Un percorso analogo oggi è impraticabile? Proviamo a imitarne la sequenza, chissà che da qualche parte non ci porti. Primo passo: uso capitalistico delle macchine.

Il genere umano adatto al computer

Assumiamo che la tecnologia-simbolo del fordismo sia la catena di montaggio e la tecnologia-simbolo del postfordismo il computer. Richiedono due razze diverse di forza lavoro. La prima una forza lavoro che, anche se scolarizzata, deve soltanto adattare i propri bioritmi a quelli della macchina, esserne una funzione, un componente. La seconda una forza lavoro che, anche se non scolarizzata, deve possedere competenze, conoscenze e saper interagire con la macchina. Nel fordismo abbiamo una potenza tecnologica che soggioga e disciplina la forza lavoro, nel postfordismo uno strumento tecnologico che dialoga con la forza lavoro, nel fordismo l’uomo – per paradosso – ridotto a scimmia, nel postfordismo l’uomo tutto cervello. La liberazione nel primo caso passava per il rovesciamento dei rapporti con la macchina (il ritmo lo decido io e non la catena, il cottimo individuale va abolito, la tecnologia non va accettata come tale ma modificata, prima la salute e poi la produttività, i salari tendenzialmente uguali per tutti ecc. ecc.). Erano i primissimi passi per riacquistare dignità umana e diventare soggetto politico. Non è lo stesso percorso che si presenta nel postfordismo, il computer è – può essere – liberazione. I percorsi sono molto più complessi e per individuarli dobbiamo abbandonare l’operaismo. Anzi, può diventare un ostacolo. Ed in effetti oggi il revival dell’operaismo, che avviene in coincidenza con il quarantennale della pubblicazione dell’opera di Mario Tronti “Operai e capitale”, avviene in un contesto che rafforza le posizioni di coloro che sono i principali avversari di una liberazione del precariato, come cercheremo di dimostrare. Noi dobbiamo difendere lo spirito, la logica dell’operaismo originario, non la moda operaista di oggi.

I mutamenti genetici indotti dal postfordismo

Utilizziamo il termine “mutamento genetico” in senso figurato ma non troppo. I fenomeni che inducono un mutamento dei comportamenti sociali, delle abitudini e degli stili di vita hanno un’importanza che possiamo considerare maggiore di quella che potrebbe ottenersi con mutamenti indotti nell’organismo umano. Il primo grande salto che compie il postfordismo rispetto al fordismo è l’attribuzione di valore al capitale umano, alle conoscenze/competenze. Questo comporta una prima “specifica di cittadinanza”, intendendo per specifica i requisiti richiesti per essere cittadino in un mercato del lavoro postfordista. Sono requisiti costosi, perché significano un investimento consistente – in termini di tempo e di denaro – nella cosiddetta formazione. Per accedere al mercato del lavoro occorre essere dotati di un consistente bagaglio formativo, in modo da attestare frequenze da inserire in quei curricula che si allungano in proporzione agli anni di precariato.
Anya Kamenetz è una giornalista di 25 anni del Village Voice ed ha appena pubblicato un libro, Generation Debt, dal sottotitolo “Perché oggi è terribile essere giovani”. L’argomentazione è molto semplice: la stragrande maggioranza dei giovani americani esce dagli studi con tanti debiti sul collo (contratti per pagarsi gli studi) che ne restano condizionati al momento di entrare nel mercato del lavoro, e rendono le condizioni lavorative – che si deteriorano sempre di più – ancora più dure. Insomma sono già fottuti prima di cominciare. Questa non è ancora la situazione in Europa ma ci stiamo arrivando. La “specifica di cittadinanza” richiesta dal postfordismo ha prodotto un gonfiamento abnorme e mostruoso della cosiddetta “offerta formativa”; centinaia di scuole, di corsi, di master che ci assordano con le loro proposte, sono oggi appannaggio del mercato privato, ma presto sarà la scuola pubblica a presentarsi come un brand, a fare marketing, come stanno già facendo alcune università italiane, che si strappano gli studenti a forza di promesse di corsi brevi o di corsi facili, talune abbassando i prezzi, altre alzandoli in modo da creare nella clientela l’effetto “lusso” (“se costa tanto vuol dire che è buona”). E’ il postfordismo che ha inventato il lifelong learning, quel micidiale meccanismo per il quale il giovane si convince che il suo precariato non dipende da rapporti di forza tra le classi ma dalla sua insufficiente formazione, quindi più rimane disoccupato o sottoccupato e più studia. Non è un caso che le forze maggiormente responsabili della precarizzazione di massa richiedano a gran voce investimenti nella formazione. I Sindacati hanno beneficiato in questi ultimi vent’anni di finanziamenti europei di notevole entità per la formazione, risorse con cui avrebbero potuto essere finanziati ammortizzatori sociali mirati.
Risultato zero. In parallelo a questa frenesia del mercato della formazione si è andata svolgendo l’involuzione del sistema scolastico, mentre l’Università ha continuato ad essere governata e organizzata in base alle esigenze dei docenti e non in base ai bisogni degli studenti. Pertanto il postfordismo o la cosiddetta knowledge economy hanno prodotto la superfetazione di un mercato della formazione pubblica e privata la cui sola funzione ormai è quella di produrre un essere umano che è un precario prima ancora di entrare nel mercato del lavoro e che solo per eufemismo viene chiamato “uomo flessibile”. Il postfordismo in tal modo ha trasformato una condizione lavorativa – che per sua definizione è modificabile in base a un rapporto di forza – in una caratteristica genetica. Il precariato non deve nascere solo al momento dell’incontro con il mercato del lavoro, deve essere costitutivo della mentalità della persona, deve essere inoculato nella persona come percezione del sè.

L’obsolescenza delle competenze

Si dovrebbe cominciare a difenderli sin da piccoli i nostri figli da questa macchina infernale che si chiama formazione, tanto più quanto maggiore è il pericolo che crescano “schermodipendenti” (display della tv di casa, del telefonino, del videogioco, del computer). Mai l’autoformazione è stata così importante per aiutarci a vivere e a non restare schiacciati dal mercato della formazione. Mai un sistema di pensiero indipendente, scaturito dalla necessità primordiale di sopravvivere e di non farsi sommergere dalla marea formativa che sale ogni giorno di più, è stato tanto necessario come oggi.
L’ideologia perversa del lifelong learning, la credenza che le competenze accumulate sono sempre insufficienti, come se fossero quelle e non i rapporti tra le classi che impediscono un’occupazione stabile, trovano tuttavia una giustificazione, una base di realtà, nel fatto che effettivamente nel postfordismo l’innovazione tecnologica, soprattutto a livello d’informatica, è rapida e uccide ogni giorno posti di lavoro per obsolescenza. Nel fordismo questi passaggi, per cui interi gruppi professionali venivano messi fuori gioco, non erano così frequenti, tant’è che, ogniqualvolta accadeva, il fatto era riportato con enfasi epica o tragica dai libri di storia (es. l’espulsione dei “camalli” in seguito all’introduzione del container). Oggi è storia quotidiana, è un fenomeno strutturale. Ma proprio per questo richiederebbe interventi mirati, politiche di compensazione specifiche. Oppure una gestione delle risorse destinate alla cosiddetta “riqualificazione” interamente sottratta alle forze che sono le principali responsabili della precarizzazione.

Cosa significa avere un proprio sistema di pensiero

Uno dei fattori che ha contribuito a rendere politicamente “forte” il sistema di pensiero operaista agli inizi degli Anni 60 è stato il fatto di aver guardato a fondo nella natura del taylorismo e del fordismo, di averlo studiato nel suo paese di origine, gli Stati Uniti. La cultura italiana ed europea dell’epoca infatti ne sapeva ben poco. Il taylorismo ed il fordismo erano arrivati con dieci, quindici anni di ritardo in Europa, in Paesi come l’Italia e la Germania erano arrivati con i regimi fascisti. La cultura “industriale” del PCI e del PSI di quei tempi aveva idee piuttosto vaghe sul fordismo, era una cultura “produttivista”, completamente condizionata dall’antifascismo, cioè da problematiche di tipo istituzionale. Le durissime condizioni di lavoro nell’industria italiana degli Anni 50 – per i ritmi ossessivi e la disciplina da caserma della fabbrica – venivano ricondotte al riemergere di mentalità fasciste e autoritarie. Il taylorismo veniva guardato come strumento di innalzamento della produttività che ben aveva funzionato in Unione Sovietica. C’era dunque un grande gap culturale tra gli operaisti ed il resto della Sinistra.
Oggi noi viviamo analoga situazione. La cultura industriale italiana – e quindi anche quella della Sinistra, che non si discosta nemmeno di un millimetro da quella di Confindustria – non sa e non vuol sapere quel che veramente è accaduto negli Stati Uniti con la new economy, le dot.com e tutto quell’insieme di iniziative e di avvenimenti che hanno prodotto una vera e propria rivoluzione negli Anni 90, prima e dopo l’avvento del web. Soprattutto non hanno capito che quella rivoluzione ha avuto anche dei connotati anticapitalistici ed è stata condotta all’insegna del rifiuto dei modelli disciplinari e produttivi delle big corporations, in uno spirito libertario, anticonformista, e con un chiaro senso di rivolta contro il sistema della formazione così come viene offerto dalle business schools e dalle big universities. Veniva esaltata l’autoformazione, quella che una volta si chiamava l’autodidattica. I main frame della IBM erano chiamati “i Lager dell’informazione”. E’ da questo spirito che è nato il movimento per l’open source, da qui provengono i gruppi ancora attivi degli “informatici per la democrazia”, che vigilano sui pericoli di privatizzazione del web. Qui si è formata quella nuova classe che i guru del management come Drucker chiamano knowledge workers, sociologi come Florida creative class o economisti e politici come Robert Reich “analisti di simboli”. Hanno sognato un nuovo mondo, un nuovo modo di lavorare, di fare impresa, un diverso modo di definirsi, né blue collar né white collar, tant’è che uno come Andrew Ross, cronista egregio della loro storia, li ha chiamati no-collar. Poi sono stati risucchiati dalla finanza e stritolati dalla crisi del 2000/2001 – ma quale rivoluzione nell’Occidente capitalistico non viene risucchiata e stritolata?

Ci siamo stufati di Ken Loach

E’ dalle vicende di questa web class – passatemi il neologismo – che bisogna ripartire per capire a fondo la natura del postfordismo e la sua capacità di rendere strutturale la condizione di lavoro precaria. Pochi in Italia conoscono questa storia e ancor meno hanno cercato di ragionarci su, per tirarne fuori un pensiero politico. La “Shake” agli inizi degli Anni Novanta lo ha fatto (non è stata la sola), lo hanno fatto quelli che hanno inventato la Mayday, ma i loro ragionamenti non sono diventati patrimonio comune né della Sinistra nè di una parte consistente dei movimenti, i quali continuano ancora ad attardarsi nel celebrare i funerali della classe operaia. Non solo, ma la sconfitta dell’operaio massa (sconfitta relativa peraltro) invece di un monito viene assunta a paradigma politico. I modelli di lavoro del fordismo – in particolare il contratto di lavoro subordinato – invece di essere superati nel diritto e nelle politiche del lavoro, con uno sforzo d’innovazione che vada incontro al precariato e lo riconosca come forma generale, vengono cristallizzati come unici modelli che danno accesso al sistema di tutele. Nei loro stampi vengono ficcati a forza i precari, i parasubordinati, i lavoratori autonomi di seconda generazione, tutto il lavoro postfordista. Belle le storie di lavoro raccontate da Ken Loach, ma inchiodate ancora al mito di una classe operaia che fu, storie di nostalgia che guardano indietro e mai in avanti e ricordano terribilmente quelle del neorealismo italiano: mentre i contadini meridionali diventavano operai di fabbrica e formavano il reparto di punta dell’operaio massa, i registi italiani continuavano a raccontare storie di terre aride e di donne in nero, inzuppate di pathos similgreco e di retorica meridionalista – che mandavano in solluchero l’intellighentsia comunista ed a molti di noi facevano solo toccare ferro.
Per dire che è ora di finirla con questa riproposizione di una storia finita della classe operaia (mostrata guarda caso sempre da “simpatica perdente”) ed è invece urgente focalizzare il lavoro postfordista, le sue problematiche, le sue possibilità di riscatto, è indispensabile trovare nuovi criteri di tutela delle condizioni lavorative che non rientrano nel contratto-tipo del lavoro subordinato, nuovi ammortizzatori sociali, nuovi incentivi – che compaiono, pur timidamente, anche nel programma elettorale di Segolène Royal in Francia. In questo senso si diceva che il revival operaista di oggi può essere un fattore di conservazione e di blocco dell’agire politico.

Il precariato come il morbillo ovvero c’è di peggio della legge Biagi

Varrebbe la pena seguire il percorso dell’intellighentsia di Sinistra nell’occultare la natura del lavoro nel postfordismo. La prima percezione che qualcosa stava cambiando la ebbe dieci anni fa quando si accorse che c’era un po’ di occupazione “atipica” o “non standard”, come dicono a Bruxelles. Sociologi di vaglia cominciarono ad occuparsi di strani esseri umani, i co.co.co.. Furono fatte dal sindacato le prime inchieste e saltò fuori che erano più di due milioni in Italia. Il problema del lavoro “atipico” dunque non era marginale, ma coinvolgeva il 10% della forza lavoro. A questo si aggiungevano i lavoratori autonomi di seconda generazione, ma di questi ci si sbarazzò subito dicendo che non erano lavoratori ma “imprese”, “ditte individuali”, e pertanto di competenza di Confindustria. Intanto era giunto al potere Berlusconi e il suo Ministero del Lavoro, con la consulenza iniziale di Marco Biagi, diede una veste istituzionale al lavoro “atipico”, compiendo un primo passo importante nel riconoscimento che il postfordismo stava cambiando il mondo del lavoro e che a partire da questi mutamenti andava costruita una nuova politica del diritto e della contrattualistica. Ma l’astuta talpa dell’intellighentsia di Sinistra continuava a lavorare per ridurre il problema dei lavori “atipici” ad un problema marginale. I due milioni e passa di co.co.co. vennero ridotti a 400.000 da analisi statistiche più attente, che depurarono i dati INPS dalle mancate cancellazioni e scartarono i co.co.co. titolari di pensione o di altre occupazioni.
Al tempo stesso, sempre con statistiche alla mano, fornite dai dati ISTAT della Rilevazione continua delle forze di lavoro, altri valenti sociologi annunciavano al mondo che il lavoro autonomo era in diminuzione (trascurando il fatto cheera in diminuzione quello tradizionale, il lavoro contadino e del piccolo commercio, mentre quello di seconda generazione era in forte ascesa). Così il problema del postfordismo, che abbiamo visto implica una trasformazione molto complessa degli assetti capitalistici, veniva praticamente ridotto a problema marginale e il precariato a problema fisiologico. Si trattava, secondo queste menti eccelse, di un periodo transitorio della vita lavorativa di ognuno di noi (il periodo del “flusso”), destinato rapidamente ad estinguersi e passare poi al periodo dell’occupazione stabile (il periodo dello “stock”) e sicura per tutta la vita. Insomma il precariato come malattia infantile, come il morbillo, la scarlattina. Si giunge così al governo Prodi ed al Ministero Damiano, con il quale ogni traccia di ragionamento sul lavoro postfordista viene azzerata.
L’unica idea di lavoro è quella che corrisponde alla fattispecie del contratto di lavoro a tempo indeterminato; il precario, l’atipico, il non standard sono riconosciuti solo come “figure di passaggio”, fanno parte dell’effimero del mercato del lavoro; scompariranno quando entreranno nella forza lavoro stabile, nello “stock” di forza lavoro. Vengono aumentate le aliquote contributive però. Effimeri come cittadini lavoratori ma non come cittadini contribuenti. In questo quadro, tra l’altro, l’unica azione di governo concreta in favore del precariato non può che essere quella all’interno dell’impiego pubblico, immettendo in ruolo un po’ di lavoratori a tempo determinato dell’Amministrazione pubblica. Sul mercato privato nulla può il governo, a meno di introdurre una nuova legislazione del lavoro. Di fronte a questa sequenza inquietante, a questo rifiuto di voler percorrere strade nuove per fenomeni nuovi – sia nel sistema delle tutele fondamentali che nel sistema degli ammortizzatori sociali – la vituperata “legge 30” rischia di fare bella figura. Anche nella sua versione maroniana infatti, questa legge ha rappresentato un riconoscimento dell’esistenza di una fattispecie lavorativa diversa dal modello standard. A suo modo, forse in maniera maldestra, ha cercato di inserire elementi di tutela, ha legittimato per la prima volta il lavoro postfordista ed il precariato come fenomeno strutturale – non come fenomeno passeggero (un “flusso”), quale vogliono farlo apparire gli attuali uomini di Governo ed i loro consiglieri. La legge Biagi non ha peggiorato la condizione di precarietà, ha cercato di formalizzarla. Il “pacchetto Treu” dei precedenti governi di centro-sinistra, quello sì, aveva dato via libera ai processi di flessibilizzazione selvaggia nel mercato del lavoro. Pertanto aver scelto la “legge Biagi” come obbiettivo di fondo di una lotta contro il precariato sembra la classica riedizione delle imprese di Don Chisciotte contro i mulini a vento.
Bene o male la “legge 30” prende atto che le posizioni di lavoro “atipiche” sono una componente costante, la cultura ministeriale attuale le considera come l’acne giovanile. Ed alle donne (soprattutto) e agli uomini che sono invecchiati a furia di contratti di co.co.co., temporanei, stages, partite Iva e altri espedienti per vivere, sa dire soltanto “pagate troppo poche tasse”!

I grandi numeri ovvero le misure della Signora Italia

A leggere ed ascoltare il discorso pubblico si ha la sensazione spesso che il ceto politico non abbia ben presente com’è fatto il Paese, che gli mancano i grandi numeri. Ogni tanto ricordarli vale la pena, soprattutto se vogliamo avere un’idea del lavoro postfordista. Il 47% della forza lavoro del settore di mercato pari a 7.683.000 persone, lavora in imprese al di sotto dei 10 dipendenti e di queste 6.179.000 lavorano in imprese che non superano in media i 2,7 dipendenti (dati Istat, ottobre 2006). Se ci aggiungiamo circa 1 milione di persone che lavora in imprese che non superano i 15 dipendenti, abbiamo un esercito di circa 8 milioni e mezzo di persone su un totale di 16 milioni e mezzo che non è tutelato dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Pertanto anche il contratto di lavoro a tempo indeterminato rappresenta un sistema di totale sicurezza del lavoro per meno del 50% della forza lavoro occupata nel settore di mercato (cioè escluso il settore pubblico). Quindi il mercato del lavoro italiano – se escludiamo per ora il settore pubblico e parapubblico – ha già un elevato grado di flessibilità nell’ambito dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Su questo substrato si innesta il precariato vero e proprio.
Ma guardiamolo meglio questo substrato, perché non riusciremo mai a capire la natura del precariato se non abbiamo chiaro il terreno su cui si forma.
Piaccia o non piaccia, il vero “buco nero” di questo substrato è rappresentato da quei 6 milioni e passa di persone che lavorano in imprese il cui numero medio di dipendenti non arriva nemmeno a tre. Perché è un “buco nero”? Per due ragioni di fondo. La prima è che un organismo che ha meno di tre dipendenti non può essere chiamato “impresa”. Anche chi ha letto solo un Bigini di economia sa che l’impresa è un’istituzione costituita da tre figure o ruoli sociali distinti: il capitale, il management e la forza lavoro. Nelle imprese familiari capitale e management s’identificano. Una struttura composta da nemmeno tre persone viene chiamata “impresa” solo per ragioni ideologiche, cioè per voler inquadrare nella borghesia capitalistica quello che è invece il variegato universo del lavoro autonomo con un elementare grado di organizzazione, fenomeno antico ma esploso proprio in coincidenza del diffondersi di rapporti postfordisti. Quei 6 milioni 179 mila sono infatti rappresentati in parte dalle cosiddette “ditte individuali” (altro termine assurdo e mistificatorio) ed in parte da lavoratori autonomi che hanno uno o due (virgola sette) dipendenti – assunti spesso con contratti di lavoro a tempo indeterminato. La seconda ragione di fondo per cui questo è il vero “buco nero”, è rappresentata dal fatto che questo universo e quello immediatamente continguo, cioé l’universo delle imprese al di sotto dei 10 dipendenti, è quello che crea la maggiore domanda di lavoro, è quello che tiene alta la dinamica occupazionale. Le imprese medio-grandi infatti, in particolare quelle 2010 imprese che formano il nocciolo duro del capitalismo italiano analizzate nella ricerca di Mediobanca del 2006 – ricerca che chiunque voglia farsi un’idea veritiera del sistema capitalistico italiano dovrebbe sapere a memoria – nel decennio 1996/2005 hanno ridotto ininterrottamente gli occupati.
Ma non basta. In Italia, dopo che i sindacati hanno firmato lo sciagurato accordo sul costo del lavoro del luglio 1993, per dieci anni i salari pubblici e privati sono rimasti quasi fermi, circostanza che non si è verificata in nessun altro Paese dell’Unione Europea. Malgrado questo blocco dei salari, le imprese hanno continuato a decentrare, a subappaltare, a esternalizzare, a restringere sempre più l’area del core manpower ed a ingrossare l’area della microimpresa o del lavoro autonomo con un elementare grado di organizzazione. Il blocco dei salari avrebbe dovuto indurre le imprese a ingrandirsi, ad assumere più gente “in pianta stabile”, a investire in ricerca e innovazione. Invece è avvenuto il contrario: sempre più frammentati, sempre più piccoli, sempre più fragili, sempre più low tech. I corifei di Confindustria chiamano questa roba “capitalismo molecolare”. Ma piantatela! Questi sono milioni di persone che lavorano in condizioni precapitalistiche, che non hanno mai avuto un soldo in prestito da una banca mentre l’azienda che fino all’altroieri è stata di Tronchetti Provera ha 43 miliardi di euro di debiti con le banche (86 mila miliardi di vecchie lire!) ed a tutti – tranne Beppe Grillo, grazie al cielo – sembra normale.
Sono milioni di persone che non hanno mai goduto dei benefici e dei sussidi previsti per le imprese – sono cosiddette “microimprese” prive di capitali e di sussidi (la Cassa Integrazione è un sussidio per l’impresa), che vivono del loro solo capitale umano, cioè del know how e delle risorse d’iniziativa delle persone che ci lavorano. E’ qui che si concentrano gli orari di lavoro più lunghi.
Malgrado questa posizione di assoluta inferiorità nel mercato, è questo universo che traina l’occupazione in Italia. Le imprese che accumulano profitti in misura mai toccata nella storia – è sempre la ricerca Mediobanca a documentarlo – danno un contributo modestissimo all’occupazione o addirittura contribuiscono a ridurla. Il capitalismo in Italia va proprio storto, la conformazione capitalistica italiana è un’anomalia. Ma chi ne fa le spese? Il capitale umano naturalmente, le competenze, le conoscenze. Lo scorso novembre, parlando agli studenti dell’Università di Roma, il Governatore della Banca d’Italia ha dichiarato: “Dalla metà dello scorso decennio la produttività del lavoro aumenta in Italia di un punto percentuale l’anno meno che nella media dei paesi dell’OCSE. Questo fenomeno è alla radice della crisi di crescita e di competitività che il Paese vive. (….) Vi si è aggiunto però un deterioramento delle condizioni di efficienza complessiva del sistema economico. Lo sintetizza la recente riduzione del livello di produttività totale dei fattori, caso unico tra i paesi industriali“(la sottolineatura è mia).
La produttività del lavoro, com’è noto, cresce nella misura in cui il capitale umano, cioè l’intelligenza e la competenza delle persone, il loro sforzo fisico, l’erogazione di energia lavorativa umana, si combinano con il capitale fisso rappresentato da tecnologie, macchinari, sistemi organizzativi, infrastrutture di rete materiali e immateriali ecc.. Il sistema capitalistico italiano o lascia completamente abbandonato a se stesso il capitale umano, addossando sulle sue spalle gli interi costi di riproduzione e privandolo di capitale fisso (appunto l’universo delle cosiddette “microimprese” – che io preferisco chiamare l’universo del lavoro autonomo con un minimo grado di organizzazione) oppure concentra le risorse finanziarie in imprese che impiegano poco capitale umano, nelle imprese cioè dei settori a bassa tecnologia, che sono caratteristici della specializzazione produttiva del Paese e di gran parte dei cosiddetti, esageratamente esaltati, “distretti industriali”. Ma non basta. Il sistema capitalistico italiano non solo è un sistema low tech ma è un sistema nel quale la rendita prevale sul profitto. Le grandi imprese italiane non sono quelle dei settori competitivi del mercato mondiale, “maturi” o meno che siano – auto, chimica, elettronica, editoria ecc. – ma quelle che godono di posizioni di monopolio, di posizioni di rendita (ENI, ENEL, Telecom, Autostrade, banche, assicurazioni ecc.), sono imprese in qualche modo “protette”. E se ci sono imprese in grado di competere a livello internazionale in settori avanzati, è più probabile che siano pubbliche, come Finmeccanica (armi) o Fincantieri (navi da crociera) che private.

Il deterioramento della qualità del lavoro dipendente

Ecco il disastroso risultato delle privatizzazioni degli anni Novanta, che hanno consegnato monopoli pubblici nelle mani di privati (hanno avuto la faccia tosta di chiamarli “capitani coraggiosi” – gente che non ha rischiato una lira di suo, che si è trovata padrona di imperi senza avere tirato fuori il becco di un quattrino). Ecco la penosa situazione creata dall’aver legato le mani dietro la schiena al lavoro con lo sciagurato accordo del 1993. Dicevano, negli Anni Ottanta, che non potevano investire perché il costo del lavoro era troppo alto, perché c’era troppa rigidità nel mercato del lavoro. Dicevano che le imprese non potevano crescere. Hanno avuto la flessibilità in misura superiore a qualunque altro Paese europeo, il blocco dei salari, la morte della conflittualità.
E hanno portato il Paese nelle condizioni in cui si trova, un Paese dove lo scarto di reddito tra gli strati più ricchi e quelli meno ricchi è il più grande dell’Unione Europea, cioè un Paese dove l’ingiustizia sociale regna e dove quelli che stanno peggio sono proprio i giovani, in particolare quelli che investono in formazione, quelli che lavorano in proprio, che cercano di cavarsela, dopo aver aspettato per anni un’occupazione adeguata alla loro formazione. Il prezzo più alto lo paga il capitale umano, lo pagano le competenze, lo paga il merito, lo paga l’intelligenza. Hanno creato un sistema che odia l’intelligenza, la teme, e fa di tutto per mortificarla, umiliarla, ricattarla (basta vedere come sono scritti i giornali). Knowledge economy! Chissà quando i giovani italiani si renderanno conto pienamente che per il loro capitale umano non c’è mercato, che conoscenze e competenze vengono misurate solo in rapporto al costo, che si trova lavoro solo per raccomandazioni, che la qualità dei posti di lavoro – esattamente come negli Stati Uniti descritti da Anya Kamenetz e per usare le sue parole – “si deteriora ogni giorno di più”.
Ci si aspetterebbe che coloro i quali condividono con il capitale la responsabilità di questa situazione, formulino un accenno di autocritica. Macché, salgono in cattedra e si atteggiano a difensori del precariato! Loro che non sono riusciti a difendere il lavoro dipendente!
E qui nasce il grottesco della situazione cui assistiamo in questi mesi. Da parte di spezzoni del sindacato e da parte di ex sindacalisti diventati Ministri si continua a promettere il superamento del precariato attraverso l’inserimento nel sistema del lavoro dipendente, del contratto di lavoro a tempo indeterminato. Questo atteggiamento produce una pesante mistificazione, perché il fenomeno più grave e dilatato del nostro tempo non è il precariato (o non è solo il precariato) ma il deterioramento della qualità del lavoro dipendente, in termini di retribuzione, in termini di dinamiche di carriera, in termini di rapporti col sistema gerarchico/disciplinare dell’impresa, anche in termini di rapporti tra colleghi, in termini di stress, di lunghezza delle giornate lavorative, in termini di sicurezza del posto di lavoro, in termini di riconoscimento del merito e così via. Lo si coglie, questo deterioramento, in tutta la letteratura che tratta gli aspetti della vita aziendale, in particolare nel settore di quelli che una volta venivano chiamati quadri intermedi, cioè nei settori a contenuto di conoscenza ed a forte impegno relazionale. In Italia tra il reddito annuo netto di un lavoratore dipendente a tempo indeterminato e quello di un lavoratore precario ci sono solo 250 euro al mese di differenza a favore del primo! Ed è proprio il deterioramento della qualità del lavoro dipendente che spinge molti giovani a scegliere il lavoro autonomo. E qui nasce l’altra mistificazione. Per questi signori il lavoro autonomo è un “finto” lavoro autonomo, è un lavoro dipendente mascherato. I contratti di lavoro “atipici” sarebbero posizioni di lavoro dipendente che si tratterebbe di far “emergere”, per inserirli nella cittadella del contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Questa sarebbe la formula magica con cui sconfiggere il precariato. E cantano vittoria quando riescono a far assumere a tempo indeterminato i lavoratori di un call center. Invece le posizioni di lavoro “atipiche”, come le chiamano loro, occasionali, indipendenti, sono spesso, anzi sempre più, posizioni di autotutela nei confronti della miseria del lavoro dipendente, dei suoi salari da fame e delle sue condizioni ambientali che si deteriorano sempre più, oltre che rivendicazioni di autonomia e di indipendenza. Pertanto l’intero impianto concettuale e culturale delle politiche del lavoro e delle politiche giovanili del Governo Prodi si fonda su una sequenza impressionante di mistificazioni, azzerando in ultima analisi vent’anni di riflessione sul postfordismo e le sue caratteristiche.

Non aver paura di identificarsi con la middle class

Non si capisce perché tanti spezzoni di movimento che intendono rappresentare le istanze del precariato debbono travestirsi da proletariato e identificarsi con gli immigrati extracomunitari, continuando ad usare le più consunte simbologie e i più stucchevoli immaginari della tradizione del socialismo ottocentesco. Non si capisce perché si debba sopportare questo micidiale cocktail di pauperismo lamentoso e di pietismo cristiano, che ha cancellato ogni traccia di marxismo. Il fenomeno centrale di questa fase dell’epoca postfordista o della “nuova economia” è la crisi della middle class nei paesi occidentali. Secondo Robert Reich, l’ex ministro del lavoro di Clinton, è dai tempi della Grande Depressione, dal 1929, che la classe media americana non sta così male. Non sono gli strati marginali della società a scricchiolare, è la componente centrale a perdere colpi, a non vedere un futuro, a non riuscire a ritagliarsi una fetta della torta. Poiché la struttura della forza lavoro in Italia e nell’Europa occidentale non è molto diversa da quella degli Stati Uniti, questo è il problema di fondo oggi. Che cosa sanno dire i nostri eroi del centro-sinistra a questo proposito? Che bisogna “saper conquistare i voti della borghesia moderata”. Sono ancora fermi lì da trent’anni, anzi da cinquanta. Da mezzo secolo non si sono più chiesti se quell’aggregato che chiamano “borghesia moderata” è cambiato oppure no. E poiché il postfordismo ha inciso più pesantemente sulla natura e la composizione della middle class che su quella della classe operaia, i nostri eroi non hanno la più pallida idea di cosa sia il postfordismo. Welcome to the middle class poverty è lo slogan che il sindacato dei freelance di New York (40.000 iscritti) ha scritto sui volantini diffusi a migliaia nella metropolitana. Magari se si fosse indagato un po’ più a fondo sul disagio della middle classs si sarebbe capito meglio il berlusconismo, ma l’”analisi di classe”, si sa, non è più praticata da un ceto politico che sa ragionare solo in termini di clientelismo e lascia in pegno il cervello a viale dell’Astronomia. Il precariato come fenomeno di massa di una forza lavoro dotata di competenze e conoscenze, che ha pesantemente investito in formazione, di una forza lavoro dotata di skills acquisiti in decine di esperienze lavorative, lungo un percorso di lavori instabili, occasionali, ma di alto contenuto professionale, inframmezzati da lavori di merda – questo precariato è un fenomeno di middle class, interessa cittadini di società opulente. Che bisogno c’è di travestirsi da proletari e di portarsi dietro tutta la zavorra culturale della Seconda, della Terza, della Quarta Internazionale? Quanto tempo deve ancora durare il coma irreversibile del comunismo? Non è ora di fare come Welby invece di rifondarlo? Che bisogno c’è di travestirsi da proletari quando comunque si sarà costretti, laureati o no, a cercar lavoro in giro per il mondo, come lo hanno fatto milioni di contadini semianalfabeti dei primi del Novecento?

Quanti sono i precari in Italia?

Sembra che non debba ripetersi la telenovela delle statistiche sui co.co.co.. Gli studiosi del mercato del lavoro dimostrano maggiore prudenza nel quantificare l’area del precariato, sanno di toccare un problema sensibile e non se la cavano concludendo che il problema è marginale, denunciano che i dati sono scarsi e ammettono che l’oggetto dell’osservazione è complesso. Vuol dire che, in dieci anni, il lavoro postfordista si è guadagnato un po’ di attenzione. Ma veniamo ai risultati, come emergono da un articolo pubblicato sul sito http://www.lavoce.info il 21 marzo 2007. I precari in Italia sarebbero 3.757.000 pari al 12,2% dell’occupazione totale, “mentre tra coloro che non hanno più un lavoro, ma sono in cerca di una nuova occupazione o sarebbero immediatamente disponibili a lavorare, i precari sono il 36,3%”. Secondo la stessa fonte, il reddito annuo netto di un lavoratore a termine sarebbe in media di 12.438 euro, di un co.co.pro. sarebbe di 10.191 euro, di un lavoratore dipendente con contratto a tempo indeterminato di 15.342 euro e di un autonomo (non meglio specificato) di 23.277 euro. E’ stato giustamente fatto osservare che da questo computo mancano due tipologie abbastanza diffuse: il lavoratore a tempo indeterminato senza contratto scritto (la legge non ne prevede l’obbligatorietà), che di fatto rientra nel “lavoro nero”, e i soci di cooperative che lavorano per enti pubblici, retribuiti solo quando la cooperativa li chiama.
Quanti siano i lavoratori appartenenti a queste due tipologie non lo sappiamo, ma nel giorno in cui il Ministero ha voluto celebrare l’Emersion Day si è parlato di 3 milioni e mezzo di lavoratori in nero o irregolari in Italia.
Questi dati, per quanto affidabili e frutto di ricerche scrupolose, non ci restituiscono mai “il clima sociale” di un fenomeno come il precariato, né tantomeno la carica pesante di soggettività che ne viene coinvolta. Di questi aspetti le ricerche universitarie non parlano, sciorinano freddi numeri, dietro i quali si fa fatica a vedere il volto ed a sentire la voce delle persone. Per cui occorre essere attenti a quelle pochissime, purtroppo, indagini, che scaturiscono dalla volontà di lavoratori di vederci chiaro nel loro mondo e di dirlo con le proprie parole, ponendosi le domande giuste, magari facendosi aiutare da qualche esperto solidale con loro, adottando il metodo che l’”operaismo” chiamava della conricerca. Prendiamone una recente, la ricerca fatta dai lavoratori di un grande gruppo editoriale, il gruppo RCS (quotidiani, riviste, libri, video ecc.), un settore tipico delle trasformazioni della new economy, un settore strategico come quello dell’informazione, un settore che viene iscritto nella sfera della creative class. La ricerca ha riguardato solo la sezione “periodici”, in pratica il lavoro giornalistico (che tanti sogni e immaginari ancora suscita nei giovani). In cinque anni (dal 2001 al 2006) sul totale dei lavoratori, quelli dipendenti sono scesi dal 23,3% al 7,9%; i lavoratori parasubordinati (co.co.pro. e altri) sono scesi dal 20,9% all’11,1% ed i lavoratori autonomi – i freelance veri e propri – sono cresciuti dal 55,8% all’81% del totale. Per quanto riguarda i livelli di reddito dei freelance, il 40% guadagna meno di 1.200 euro lordi al mese ed il 18% meno di 600 euro lordi, ma c’è anche un 30% che guadagna più di 2.500 euro al mese lordi. La maggioranza degli intervistati, uomini e donne, preferisce la condizione di lavoratore autonomo a quella di lavoratore dipendente. Un quadro analogo, ancora più vivo, in quanto fondato solo su testimonianze ed autobiografie, esce dal volumetto curato dai soci di un’Associazione di lavoratori autonomi, ACTA, che si può scaricare dal loro sito http://www.actainrete.it. Ma se dovessimo fare un inventario dei siti e dei blog in cui i lavoratori di oggi parlano della loro condizione, esprimono la loro esasperazione, la loro delusione, la loro incazzatura, non ci basterebbero altrettante pagine. Chissà se i nostri Ministri ed i nostri sindacalisti gettano ogni tanto un’occhiata su questo materiale?
Purtroppo da queste voci esce quasi sempre un senso di impotenza, poche le proposte d’iniziativa, come se si fosse persa la cultura dell’azione dal basso. Anche questo fa parte del mutamento genetico. Qualcuno dice che la middle class non è per sua natura capace di organizzarsi sindacalmente. Invece il postfordismo anche qui porta dei cambiamenti. Dieci anni fa a New York un’avvocatessa, nipote di dirigenti sindacali degli anni 30, mette in piedi un’organizzazione “Lavorare oggi”, anzi, un sito (www.workingtoday.org), che poi diventa veicolo d’organizzazione. Si rivolge al precariato dei freelance, a quella che abbiamo chiamato la web class, ai mille mestieri di una metropoli moderna, esercitati da gente che ha professionalità o semplicemente necessità di sopravvivere. Nasce così un grande sindacato, la Freelancers Union, che pone una serie di rivendicazioni: assistenza malattia, pensione di vecchiaia, fiscalità meno pesante, misure contro i committenti che non pagano. Oggi, coi suoi 40.000 iscritti, è una delle lobby che condizionano il governo della Grande Mela. La città di New York ha fatto una ricerca, per capire quanti sono questi “liberi professionisti”, in gran parte ascritti alla creative class, ed ha scoperto che rappresentano il 30% della forza lavoro e l’80% dei nuovi posti di lavoro creati negli ultimi dieci anni. Alla metà di aprile di quest’anno il Consiglio Comunale di New York si è riunito per ascoltarli e loro hanno esposto i loro problemi. Trattano da posizione di forza con banche e assicurazioni la loro previdenza privata. Hanno iniziato a tutelarsi, si ricollegano alla tradizione del movimento operaio ma lavorano con stile e metodi del tutto “postfordisti”, soprattutto col web. E ciò avviene in un Paese dove il tasso di sindacalizzazione nell’industria è del 7%. Cosa succede invece nella nostra gloriosa Seconda Repubblica? Andiamo a cercare col lanternino presso i co.co.pro. e le partite Iva “gli indizi di subordinazione”, ci rompiamo la testa – anzi se la rompono i professori universitari che questi mestieri in genere non esercitano – per capire chi è un vero autonomo e chi un finto dipendente. Pare addirittura che per saperlo il povero cittadino/lavoratore oggetto dell’indagine deve dare risposta a sei domande, cinque delle quali sono state formulate “in base all’analisi delle sentenze di trasformazione di contratti di lavoro autonomo in lavoro dipendente desunti dai verbali del giudice del lavoro del tribunale di Torino” come ci dicono i valenti ricercatori de lavoce.info. Se alla fine risulta che uno è un finto autonomo ha diritto alla pensione e alle tutele sindacali, altrimenti, se è un autonomo “vero”, non ne ha diritto. E se uno è autonomo al 30%? Su queste baggianate si costruiscono le politiche del lavoro. San Precario, Beppe Grillo, aiutateci voi!

Definirsi classe, non generazione

“Génération précaire”, “Generation Debt”, “generazione milleuro” – in tutti i Paesi c’è sempre il termine “generazione” che viene usato per caratterizzare la condizione del lavoro di oggi. In questo modo però se da un lato si sottolinea che sono soprattutto i giovani a subire le conseguenze del sistema postfordista, s’insinua d’altro lato la falsa idea che questo sia un problema soltanto giovanile. Invece c’è gente che è invecchiata ormai a furia di lavorare in posizioni “non standard”. Non è un problema giovanile – è un problema che riguarda la nuova classe prodotta dal fordismo e dalla new economy, la nuova umanità del web e della globalizzazione. Per questo abbiamo buttato lì il termine web class e chissà che non funzioni. Ma abbiamo detto web class perché ci vediamo dentro un elemento positivo, un potenziale di organizzazione, di autotutela e quindi di soggettività politica. Web come “costruzione di una rete”, come strumento potente di comunicazione, come Babele di lingue dove però alla fine impariamo a riconoscere i nostri simili, dove possiamo stabilire codici d’identificazione e parlare in tempo reale e reagire alla quotidianità incessante delle cazzate che vengono pronunciate sul nostro conto. Come strumento silenzioso per preparare il momento in cui bisogna fare rumore per farsi ascoltare (e gli impianti a tutto volume della Mayday montati sui bestioni sono un’azzeccata metafora di questa necessità).
Web class come cooperazione tra intelligenze, competenze, skills, come costruzione di un sistema di pensiero, sofisticato ma chiaro, intelleggibile a tutti, fatto di poche idee centrali, schematiche, tagliate con l’accetta – dove la parte più complessa e difficile, forse la vera battaglia da condurre, è quella sulla gestione della memoria, sulla scelta degli immaginari che ci trasmette la storia del lavoro che ha saputo autotutelarsi, la storia del movimento operaio.
Una memoria che può essere il fardello più pesante che ci impedisce di andare avanti oppure lo spunto di idee, di iniziative, l’incoraggiamento a tentare. E’ chiaro che la web class così delineata è una piccola minoranza della forza lavoro complessiva, se noi guardiamo ai processi di globalizzazione. E’ chiaro che alla crisi della middle class occidentale corrisponde un’ascesa della borghesia media nei Paesi emergenti. Ma noi siamo in Italia, la nostra sopravvivenza si gioca qui, in mezzo a questa miseria politica e civile che ci sommerge da ogni parte e da cui dobbiamo cercare di liberarci poco a poco. In tutta la storia del movimento operaio è sempre stata una minoranza di classe che ha preso l’iniziativa. Le prime società operaie furono costituite dai tipografi, perché erano quelli che sapevano leggere, ma rappresentavano meno dell’1% della forza lavoro. L’operaio massa degli Anni 60 era una minoranza anche dentro il settore industriale, a parte il terziario e l’agricoltura. Non solo erano minoranze ma anche relativamente privilegiate. Può rischiare lo scontro chi ha un minimo di margini, di risorse. Gli sfigati totali con Berlusconi. Bisogna riportare il lavoro al primo posto dell’agenda politica, prima dei Dico, dei Pacs, delle pari opportunità, di Zapatero, della striscia di Gaza, delle grandi infrastrutture, dell’equilibrio di bilancio, del Partito Democratico, prima di quella marea di argomenti che sembrano sempre più importanti del lavoro.
Bisogna cominciare a mettere il lavoro al primo posto nella negoziazione con gli enti locali. E’ una battaglia che potrebbe raddrizzare il Paese, visto come lo hanno ridotto, è una battaglia per la valorizzazione del capitale umano. Ma “l’interesse generale”, come sappiamo, è scomparso dalla cultura politica da tempo e alla web class conviene accentuare in questa fase la sua visione “di parte”, guardare solo alla propria condizione e da lì trarre le conseguenze per agire.

Sergio Bologna
Già docente di storia del movimento operaio e della società industriale in varie università, è autore, tra gli altri, di “Nazismo e classe operaia 1933-1993”, Manifestolibri 1996; e curatore di “Il lavoro autonomo di seconda generazione” (con A. Fumagalli), Feltrinelli 1997.

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